TITOLO ORIGINALE: Hamlet
REGISTA: Lindsey Turner, Robin Lough.
ANNO: 2015
CAST: Benedict Cumberbatch (Amleto), Ciaràn Hinds (Claudio), Anastastia Hille (Gertrude), Leo Bill (Orazio), Kobna Holdbrook-Smith (Laerte), Sian Brooke (Ofelia), Jim Norton (Polonio) [more]
"I could be bounded in a nutshell and count myself a king of infinite space, were it not that I have bad dreams."
Come si fa a parlare di quell’opera
straordinaria che è l’Amleto, o Hamlet che dir si voglia, di William
Shakespeare? Come si può rendere nero su bianco il vortice di emozioni, i
diversi piani di lettura, la profondità dei personaggi e il dramma degli eventi
narrati? La trama è inutile sottolinearla, è nota a tutti: il giovane principe
Amleto scopre che lo zio Claudio, ora re, ha ucciso barbaramente suo padre e
legittimo re di Danimarca, e spinto dall’apparizione del fantasma del padre
pianifica la sua vendetta; ma scriverne in proposito non è un lavoro facile, L’Amleto
è una delle opere più famose del Bardo inglese e anche una delle più lunghe con
i suoi cinque atti e più di tremila versi, eppure nonostante la sua complessità
stiamo parlando di una delle opere di Shakespeare più rappresentate e con cui
ogni attore degno di questo nome vuole confrontarsi almeno una volta nella
propria carriera, quanto a noi spettatori, se siamo amanti del teatro non si
può mai dire di no ad una rappresentazione della tragedia del dolce principe
danese; ma se in Inghilterra è abbastanza facile riuscire a vedere un buon
numero di rappresentazioni shakespeariane, non così in Italia e noi poveri “buffoni
della sorte” (cit.) siamo costretti ad accontentarci delle rare occasioni che
ci vengono offerte. Se il viaggio fino alla perfida Albione ci è negato non ci
resta che arraffare al volo le proiezioni del National Theatre Live tutte
offerte dalla Nexo Digital che da un po’ di anni a questa parte si è presa l’onere
e l’onore di far conoscere le meraviglie del teatro inglese anche in terra
italica, con avverse fortune, tocca sottolineare, ma stavolta il richiamo di Benedict
Cumberbatch, uno degli attori di maggior talento del panorama contemporaneo ha
sicuramente contribuito a riempire le sale cinematografiche solitamente
desolate quando i temi trattati sono un po’ più complicati dei classici toni da
commedia nostrana.
L’Hamlet messo in scena al
Barbican Theatre di Londra è stato diretto da Lindsey Turner e oltre al già
citato Cumberbatch mescola nel suo cast volti noti e meno noti al grande
pubblico: ad interpretare Claudio abbiamo infatti Ciaràn Hinds mentre il ruolo
di Orazio è affidato a Leo Bill che molti ricorderanno come il timido Darwin dello
splendido The Fall di Tarsem Singh. Ad affiancarli i meno conosciuti Kobna
Holdbrook-Smith, Laerte, e Sian Brooke, Ofelia.
Com’è buona regola del teatro
inglese, anche se l’opera rappresentata è famosissima e conosciuta a menadito
da moltissimi non si ha paura di lanciarsi e sperimentare, non c’è alcuna
ricerca di un’ambientazione che si adatti storicamente all’epoca in cui gli
eventi dovrebbero aver avuto luogo, niente calzoni a palloncino e calzamaglia
per gli uomini e niente corsetti ed elaborate acconciature per le donne, ciò
che conta sono i versi e la potenza delle parole di Shakespeare che possono
rimanere valide e persino assumere nuovi significati cambiando il contesto in
cui esse vengono pronunciate, ecco quindi che la reggia di Elsinore si
trasforma nell’interno di quella che potrebbe essere un’antica magione inglese,
con un ampio atrio, grandi finestre e porte che conducono ad altre stanze e
contribuiscono ad allargare e ingigantire il palcoscenico con intelligenti
giochi di prospettive. A dominare su tutto, una scalinata da cui entrano ed
escono i personaggi.
Se trasformato è l’ambiente in
cui prende corpo l’azione, altrettanto modernizzati risultano essere i costumi
dei protagonisti, un dettaglio non da poco: Amleto ci viene presentato come un
ragazzo timido, semplice, che veste di nero e adora ascoltare i suoi dischi e
che ci accoglie sulla scena con le note di Nature Boy di David Bowie, e la
musica sembra essere l’unico conforto per questo ragazzo che ha perso da poco
il padre, l’unico a cui poi sembra importare ancora qualcosa del regale estinto
mentre a corte già si festeggiano le nuove nozze della regina Gertrude con il
fratello del suo defunto marito, Claudio, ora divenuto re. Quando irrompe nella
scena Orazio è impossibile non rimanere un po’ perplessi da questo giovanotto
che sembra essere appena uscito dall’aula di una moderna università e non da una
quanto meno medievale Wittenberg: camicia a quadri, maniche arrotolate e
braccia coperte da tatuaggi. Il vento della modernità travolge anche Ofelia, la
dolce e bella fanciulla innamorata del principe Amleto non trascina più in giro
le sue pesanti gonne ma indossa abiti corti e leggeri, in una scena addirittura
dei pantaloni, e impiega il suo tempo non a cucire ma a fotografare ciò che la
circonda e a suonare il piano.
A mantenere una parvenza di
regalità sembrano essere rimasti solo il re con la sua uniforme, la regina con
il suo setoso abito lungo e gli altri membri della corte tutti in inappuntabili
tailleur e completi scuri. È impossibile non notare come anche i costumi ci vogliano
comunicare qualcosa, Amleto è un ragazzo che veste jeans, maglioni neri e
magliette con stampata su la faccia di David Bowie, mentre intorno a lui tutti
ostentano eleganza, un’eleganza a cui lui si piegherà solo quando si fingerà
pazzo per attuare la sua vendetta, solo allora si vestirà anche lui in uniforme
e andrà in giro scimmiottando le parate tanto amate dallo zio/padre/re, prendendosi
gioco di coloro che vorrebbero ostentare una finta normalità quando invece il
potere da loro detenuto non è altro che finzione e inganno. A metà strada si
colloca invece Laerte, il personaggio che forse meno rende giustizia all’idea
che Shakespeare aveva di lui, che si muove diligentemente nei binari tracciati
per lui dal solerte Polonio, consigliere del re. Una volta rimasto solo, dopo
la scomparsa del padre e della sorella, smarrito e senza un punto d’appoggio
non esiterà a diventare la pedina fondamentale per i malvagi piani di Claudio,
intento a sbarazzarsi della scomoda presenza di Amleto. A non permettere la
restituzione di un personaggio di più ampio respiro probabilmente concorre
anche la recitazione di Holdbrook-Smith che si muove sempre un passo dietro i
suoi compagni di scena.
Amleto invece non si lascia
incorniciare in questo finto ritratto di normalità, e non si lascia condurre, infatti
quando il sovrannaturale entra in campo è l’unico che non si fa spaventare
nonostante le raccomandazioni di Orazio e di Bernardo e Marcello, le guardie
che l’avvisano dell’improvvisa apparizione del fantasma del defunto Amleto, il
padre del giovane principe. “Ricordati di me” urla lo spettro prima di
scomparire, e Amleto lo farà, quello che era prima uno strisciante sospetto
diviene certezza e così si mette in moto tutta la macchina della tragedia che
travolgerà ogni personaggio in scena. Inizia la discesa di Amleto in
una lucida follia, come evidenzia più volte Polonio, intesa a smascherare e
portare a galla il più turpe dei delitti, condannando non solo lo zio,
scolorita copia del fu Amleto: nobile, forte e valoroso; ma anche la madre
Gertrude rea di aver troppo presto dimenticato il defunto sposo.
Quando la pazzia prorompe
nella scena, l’intero dramma sembra far un passo avanti e salire di livello,
anche grazie alla straordinaria interpretazione di Benedict Cumberbatch che
prende per mano l’intero cast che tende a mantenersi nell’ombra, e sostiene su
di se l’intera rappresentazione, muovendosi senza sforzo dal registro tragico a
quello comico, strappa infatti più di una risata in quei punti del testo in cui
Amleto si finge folle o ha qualche alterco con il petulante Polonio, mentre gli
occhi faticano a mantenersi asciutti quando recita con passione il monologo più
famoso non solo dell’opera ma forse dell’intera storia del teatro, quell’essere
o non essere che rende chiari tutti i dubbi dell’uomo messo di fronte a ciò che
è giusto e sbagliato, ciò che è noto e ciò che non lo è, quell’ignoto che spaventa
per questa sua ineffabilità. Amleto dichiara che gli uomini non sono altro che esseri
che strisciano tra la terra e il cielo, troppo soli e spaventati dalla grandezza
di tutto ciò che li circonda e accade loro per poter passare all’azione. Il
principe danese scoperchia un vaso di Pandora che ribalta e contraddice ogni
idea di giusto e sbagliato, sta tutto nel mente di chi pensa e scoprire ciò non
può che portare alla follia, vera come quella di Ofelia o presunta come nel
caso di Amleto, va bene tutto pur di zittire gli spettri del passato che richiedono
costantemente vendetta e che contemporaneamente ci affascinano con l’idea di un
riposo eterno in cui finalmente liberarci dai legacci, dalle fatiche e
delusioni della vita terrena. Forse bisogna disinteressarsi di tutto,
abbandonare i cattivi sogni che ci mettono davanti alla nostra incompiutezza
quando potremmo essere padroni dell’infinito, disinteressarsi dell’uomo. “Homo
sum, humani nihil a me alienum puto” diceva il socratico Terenzio che poneva l’uomo
al centro di ogni sua opera, ironico il ribaltamento che avviene in Shakespeare
che si fa contradire dal suo personaggio, lo stanco Amleto, “Men don’t interest
me”, per poi trascinarci in una delle sue migliori indagini psicologiche!
Ad allentare la tensione ma
contemporaneamente contribuendo a raggiungere l’acme della storia si inserisce la
splendida scena di metateatro che attraverso la finzione della recitazione
porta a galla la verità sulla morte del padre di Amleto, ma è anche l’ennesima
riflessione su quanto la parola e il teatro esercitino su di noi una funzione
catartica e di svelamento della realtà.
In questo clima di confusione
e annichilimento soffia un vento infernale che colma di pietrisco nero l’ampio
atrio del palazzo reale di Elsinore, tutto ciò che ora accade è tragedia e
dolore: Amleto è ormai avviluppato in un vortice di morte in cui cadono sia
Polonio che i due amici Guildenstern e Rosencrantz, vittime incolpevoli che
fanno quasi da scudo al vero obiettivo, ovvero Claudio, che dismessi i panni di
buon re, marito e padre amorevole fa lo scatto decisivo per diventare il vero
villain della storia grazie all’interpretazione di Ciaràn Hinds che parte in
sordina e si fa sempre più possente con il passare delle battute.
Infine la desolazione e la
follia di Ofelia, orfana di padre e con il cuore spezzato dal crudele Amleto
che per mantenere credibile il gioco della sua pazzia, gioca con i sentimenti
puri della ragazza. Sian Brooke è un Ofelia, piccola e gracile, nervosa fin da
subito come se in lei ci fosse già il germe della disperazione futura. Il suo
vagare per le sale del palazzo, con i suoi fiori e piante, un erbario che
contiene dei significati ben precisi che evidenziano i temi portanti dell’opera:
a Laerte offre il rosmarino per il ricordo di chi non c’è più, le viole per il
pensiero e l’invito alla riflessione, invece al re Claudio dona il finocchio e
l’aquilegia simboli di stoltezza e infedeltà, così come la ruta per la regina
Gertrude. Ofelia si lamenta della mancanza delle violette, fiori fragili, che
simboleggiano innocenza, pudore e modestia, e che Laerte reclamerà per la tomba
della sorella.
La morte per annegamento di
Ofelia, tra le scene che non contemplano la presenza del carismatico Amleto di
Cumberbatch, è sicuramente la più toccante e incisiva dell’allestimento
teatrale, viene tutto lasciato all’immaginazione, la musica perfetta ed
evocativa di Jon Hopkins, solitamente martellante ed ossessiva qui si fa dolce e accompagna la fanciulla che si arrampica per la
montagna di pietre nere e sparisce nella luce, rimane solo un baule pieno delle
foto scattate da Ofelia, immagini cristallizzate e spezzettate di una vita che
non c’è più. Sparita l’unica anima innocente, il gioco della vendetta deve
ormai chiudersi e lo scontro tra Laerte e Amleto ben orchestrato da Claudio è
inevitabile, dovrebbe essere solo una sfida per decidere il miglior spadaccino ma
si trasforma nel momento in cui tutti i colpevoli vengono chiamati alla sbarra
per pagare il loro tributo: Amleto, Laerte, Claudio e Gertrude muoiono
avvelenati, in un intrigo da loro orchestrato per eliminare il proprio
rivale ma che si ritorce contro loro stessi. Rimane solo Orazio, che può
consegnare al tanto desiderato sonno il suo dolce principe finalmente libero da
ogni affanno e rovello terreno. A lui è inoltre affidato il compito di narrare
la storia della tragedia appena avvenuta all’accorrente Fortebraccio, nipote
del re di Norvegia, che senza fatica può conquistare i territori danesi tanto
agognati.
Sarebbe stato molto bello poter
assistere dal vivo a questo Amleto e avrebbe sicuramente trasmesso qualcosa in
più come solo quel magico legame tra attori in scena e pubblico riesce a fare,
tuttavia è innegabile che ci troviamo davanti ad un ottimo lavoro, il testo di
Shakespeare ci viene consegnato in tutta la sua forza, così come gli intenti e
i pensieri dei protagonisti sono messi in scena chiaramente, senza strane
arzigogolature che complicano senza aggiungere nulla. Brilla su tutti la
straordinaria prova di Benedict Cumberbatch che dimostra ulteriormente la sua
capacità di fare un passo indietro per permettere al personaggio di occupare
tutta la scena e subire una metamorfosi già confermataci in Sherlock e nei suoi
lavori cinematografici ma che risulta ancor più splendida quando non c’è l’ausilio
di effetti speciali e quello che conta è la capacità di saper comunicare ed
emozionare il pubblico attraverso i gesti e la voce.
C’è del marcio in Danimarca
esclama Marcello ad Orazio, ma sicuramente non altrettanto si può dire del
teatro inglese, piccolo guscio di noce da cui scrutar l’infinito.
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