AUTORE: Federico De Roberto
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2014 (prima ed. 1920)
CASA ED.: Newton Compton
"La storia d'una gran famiglia, la quale deve essere composta di quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell'altro. Il primo titolo era Vecchia razza: ciò ti dimostri l'intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d'una stirpe esausta"
Federico de Roberto
Ebbene sì, proprio come mi era già successo con Memorie d'Adriano mi ritrovo di nuovo a dispiacermi del fatto che goodreads permetta di dare solo cinque stelle a un libro. Dopo anni e anni in cui continuavo a ripetermi che dovevo assolutamente leggere I Viceré, finalmente è giunto il suo momento e la prima domanda che mi sono fatta una volta girata l'ultima pagina è stata: "perché ci ho messo così tanto a decidermi a leggerlo?" La domanda rimarrà probabilmente senza risposta ma intanto mi ritrovo con un altro romanzo da aggiungere allo scaffale dei super preferiti.
Tuttavia data la completa assenza di questo romanzo dai radar scolastici, nonostante la storia si svolga in un periodo storico cruciale per il nostro paese (ma la cosa dovrebbe sorprendermi poco visto che per studiare semi-decentemente il Risorgimento ho dovuto aspettare di arrivare all'università!) non posso addossarmi tutte le colpe per questo ingiustificabile snobismo, infatti l'opera di De Roberto sembra essere stata relegata in un angolino, complice il giudizio negativo di Benedetto Croce, il giudice supremo degli affari della letteratura italiana. Eppure non ha assolutamente nulla da invidiare ai più titolati scrittori siciliani come Verga o Pirandello, come ebbe poi a sottolineare un altro conterraneo dello scrittore, Leonardo Sciascia, che si spinse oltre e sostenne che dopo i Promessi Sposi di Manzoni nell'empireo dei romanzi italiani I Viceré meritasse un posto di prim'ordine e maggiore considerazione.
Non posso fare a meno di accordarmi al parere di Sciascia, il solo aver pensato un romanzo di tale portata è ammirevole ma essere riusciti a portarlo su carta ha dello straordinario, la prosa fluida, che in un periodo che mi vede alle prese con un esame di letteratura latina e quindi con la scrittura ricca, chiara e non verbosa e tutta giocata su un bilanciarsi di giustapposizioni e punti di vista diversi di Sallustio e della sua "Congiura di Catilina" mi ha fatto apprezzare doppiamente la capacità di De Roberto di costruire grandi architetture sintattiche che però hanno la capacità di librarsi leggere e avviluppare il lettore e immergerlo nella storia. Non una parola di più né una di meno di quelle necessarie, fiorita di alcuni "sicilianismi" che da siciliana e apprendista linguista non ho potuto far altro che notare e gustare.
Le vicende della famiglia Uzeda, dei suoi fasti e della sua grettezza, non sono altro che il racconto di un’Italia che non sembra essere poi così lontana da quella attuale: le sue corse folli e cieche verso il progresso e il cambiamento che sembrano costantemente lasciare indietro chi dovrebbe esserne il fautore e allo stesso tempo colui che dovrebbe godere delle “novarum rerum” che questo cambiamento dovrebbe portare con sé. Eppure come nota lo stesso Consalvo Uzeda, il personaggio più disincantato e per questo onesto fino alla disonestà e alla brutalità, ai Borboni possono essere succeduti i Savoia, all’ancien régime una monarchia costituzionale, ma le cose cambiano per non cambiare e coloro che erano al potere e godevano dei privilegi saranno sempre quelli al comando. Possono cambiare i nomi che si danno alle cose ma non coloro che ne muovono i fili. Una filosofia “gattopardiana”, quel cambiare tutto per non cambiare niente ormai passato alla storia e dovrebbe far riflettere come un’uguale filosofia si ritrovi in due romanzi di due scrittori siciliani, come se la Sicilia avesse potuto funzionare da cartina tornasole per la neonata nazione (ma forse anche per quella di 150 anni dopo) ma si è preferito ignorare, per nascondere le storture sotto un ricco tappeto, un po’ come si fa con la polvere quando si vuole far trovare agli ospiti (ospiti sabaudi in questo caso) tutto in perfetto ordine, però la polvere lì rimane e lì continua ad accumularsi…
I Viceré non è certo romanzo in cui spicchino figure in cui riconoscersi o a cui voler rassomigliare, tutto il contrario, non c’è nessuno che meriti di essere salvato e chi lo meriterebbe è il primo ad essere brutalmente schiacciato dall'accalcarsi sgomitante di chi pensa solo “alla roba”, ad una discendenza dal sangue marcio da continuare a portare avanti, a vecchi privilegi da difendere anche a discapito di ogni affetto e legame di sangue. Dalla vecchia principessa Teresa all’ultimo virgulto dei principi di Francalanza assistiamo ad una girandola di personaggi che begano e lottano per ottenere quello che vogliono, a qualunque costo, per poi, una volta ottenutolo, gettarlo via e continuare la lotta per riportare le cose allo stato precedente. I personaggi sono molti, ma alcuni vengono seguiti marginalmente e la lente di De Roberto si concentra, per blocchi, su delle figure tipo: il viziato Conte Raimondo, l’odiato e superstizioso Principe Giacomo, il furioso ma simpaticissimo, in una famiglia dove di simpatico non c’è praticamente nessuno, Don Blasco, la “Santa” Principessina Teresa costretta a dividersi tra l’obbedienza ad ogni costo insegnatele sin da bambina e la voglia di essere artefice del proprio destino, e infine e soprattutto Consalvo Uzeda, il più spietato di tutti, un diavolo a cui è impossibile affezionarsi ma anche l’unico capace di comprendere che se i tempi cambiano, anche se solo apparentemente, l’unica cosa possibile da fare è cambiare con loro senza star troppo a sottilizzare sulla morale e l’etica ma gettandosi a capofitto per costruirsi la maschera più adeguata per continuare ad andare avanti, certi che il sangue e il privilegio costituiscano sempre una via preferenziale e sicura per raggiungere il successo.
A fargli da contrappunto la figura malinconica e romantica del cugino Giovannino che come Consalvo non si adatta al modo di vivere e pensare della propria famiglia ma, a differenza del principino, non riesce a dissimulare il proprio malcontento, complice anche il fatto di essere semplicemente un secondogenito senza alcuna prospettiva, e a cui non resterà che pagare un prezzo altissimo per la propria libertà.
Lasciate da parte le follie e le monomanie dei parenti, Consalvo riuscirà ad imporsi e alla vecchia zia filoborbonica consegnerà a voce quello che può essere considerato il manifesto e punto focale di tutto il romanzo:
“Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.”recensione inizialmente pubblicata su Goodreads il 01-12-2016.
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