AUTORE: Michele Mari
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 24 Maggio 2016 (prima ed. 1990)
CASA ED.: Einaudi
"O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti"
Le fregature che mi sono capitate ogniqualvolta ho deciso di leggere qualche libro dedicato ad un personaggio famoso del mondo delle arti ormai non si contano più, quindi non c'è da meravigliarsi se mi sono avvicinata al testo di Michele Mari con circospezione, proprio come farebbe un lupo prima di avventarsi sulla sua preda. In realtà le cosiddetta preda si è rivelata parecchio mansueta e si è fatta mangiare in un sol boccone con piena soddisfazione di questo avido lupo-lettore.
La "preda", ma ora potremmo tornare a chiamarla con il nome più adatto, ovvero libro, è composta da 150 pagine, una lettura veloce ma non banale, che cattura il lettore e lo spinge ad andare avanti nonostante lo stile ricco e giocosamente ampolloso del testo, vivendo un'avventura che rimane solo sussurrata, mai totalmente spiegata ma che non può fare a meno di lasciare un sorriso divertito sul viso a lettura ultimata. Perché Io venia pien d'angoscia a rimirarti è un divertissement che prova a spiegare la profonda fascinazione che Leopardi aveva per la Luna mescolando erudizione e fantasia, spiegazioni filologiche accurate e racconti popolari, miti e leggende calati sullo sfondo di un romanzo gotico.
A parlare direttamente con il lettore è Orazio, il fratello minore di Leopardi che nel libro non verrà mai menzionato per cognome o attraverso il nome più noto, Giacomo, ma verrà semplicemente chiamato Tardegardo, che si stia parlando del sommo poeta italiano è possibile dedurlo solo da indizi lasciati qua e là: i nomi dei familiari, il borgo di Recanati, il titolo nobiliare e infine lo stesso titolo che non è altro che un verso della famosa ode Alla Luna. Orazio dunque ci accompagna attraverso le pagine del suo diario e ci racconta dello strano comportamento che il fratello, solitamente molto tranquillo e tutto dedito allo studio, ha assunto da un po' di tempo, delle strane uccisioni, a detta di tutti causate da un lupo, che sono avvenute nei possedimenti di famiglia e come i lupi e la luna, notoriamente legati a doppio filo nei racconti leggendari, abbiano da sempre avuto un ruolo importante nella genealogia Leopardiana.
"Egli cioè sapea, e sapendo godè. Chi non sapendo volle godere, morì; chi sapendo non affrontò il cimento, non godette.Ascoltami Orazio, l'uomo è la propria paura; se potrà attraversarla, se potrà viaggiare dentro di essa come in una paese straniero, allora quella paura sarà più bella, ed ei potrà riguardarla come una favola, o una animata pittura. Ma ad un tal viaggio fa d'uopo una guida, qual può venire soltanto dalle testimonianze di chi già s'inoltrò nelle medesime terre."
La storia fantastica diventa intelligente scusa per dipingere un ritratto di Leopardi che si discosti dalle briglie imposte dai testi di letteratura, fornendo però un quadro piuttosto ampio e probabilmente veritiero dell'immenso uomo di cultura che il poeta di Recanati doveva essere stato, senza per questo reiterare per la millesima volta la storia, sentita e risentita, di un Leopardi depresso, solo e isolato che non faceva altro che ammazzarsi di studio. Ciò che accade nel borgo, le domande curiose del padre, le preoccupazioni di Orazio snocciolano, quasi senza che il lettore se ne renda conto, secoli e secoli di poesia, di filologia, di cultura greca, latina, indiana, americana, germanica, ecc. Fatti e fatterelli, storie reali e di fantasia, si mescolano e si fondono dando vita a un trattatello che sembra condensare secoli di cultura in pochissime pagine: il volto misterioso della Luna che affascina da sempre, come i miti siano serviti a confortare gli uomini messi di fronte a fenomeni che non sapevano spiegare, come verità e fantasia a volte siano semplicemente il dritto e il rovescio dell'identica medaglia e come espungere del tutto il fantastico dalla verità significhi spogliarlo di un ornamento che sembra necessario per raggiungere il Bello; ma allo stesso tempo dei pericoli che si annidano nell'uso eccessivo della fantasia che finisce per sfociare in bieca superstizione che, ricoprendo tutto come una notte senza luna, spegne le luci del Vero.
Ad arricchire il testo, l'uso sapiente e allo stesso tempo divertente di un italiano ormai antico, pieno di verbi che ricalcano la forma di quel "pentirommi" che ritroviamo ne Il passero solitario, articoli che ancora traballano in forme non pienamente assestate (è frequente l'uso di "'l" anche con parole che iniziano per consonante), oscillazioni di grafie, l'uso non censurato di "j" con il valore di vocale, l'alto numero di occasioni in cui ricorre "codesto"ormai caduto in disuso nell'italiano contemporaneo, fino ad arrivare alle buffe esclamazioni del Signor Conte! Sembrerebbe che il testo richieda chissà quali competenze e conoscenze ma in realtà non è così, la brevità aiuta a non stancare il lettore meno esperto ma allo stesso tempo stuzzica, divertendolo, quello che riesce a cogliere i riferimenti. Insomma se si sa, si rimane colpiti dalla quantità di intrecci e rimandi che si possono intessere all'interno delle culture più disparate, mentre chi non conosce può starsene beatamente affacciato alla finestra che il testo spalanca e venire a sapere qualcosa di nuovo e così incuriosirsi e magari approfondire successivamente, ad ogni modo il gioco delle "scatole cinesi" in cui aperta una se ne ritrova subito un'altra ideata da Michele Mari funziona e a chiunque decida di seguirlo...beh, in bocca al lupo!
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